Il nazista buono

Alcuni giorni fa ho parlato, in un post, degli (e soprattutto delle) insegnanti che ho avuto durante gli anni dei miei studi. Poi è toccato a me diventare un’insegnante, e che tipo di insegnante sono stata? Ho deciso di lavorare nella scuola per quella che è stata in effetti una vocazione giovanile: avevo letto Lettera a una professoressa, avevo organizzato un doposcuola per i bambini delle famiglie immigrate dal Meridione che abitavano nei quartieri centrali di Pistoia, all’epoca (parlo degli anni ’70 del Novecento) non ancora gentrificati e diventati luoghi della movida: nelle case fatiscenti della Sala o del quartiere di San Marco vivevano in condizioni degradate famiglie siciliane, calabresi, napoletane, tutte fornite di un gran numero di figli che con la scuola avevano grosse difficoltà, sia perché non completamente italofoni, sia per le scadenti condizioni economiche e culturali delle loro famiglie. Emula di don Milani, ritenevo che la scuola fosse ciò che poteva aiutare quei bambini a riscattarsi, e che il doposcuola, animato da ragazze e ragazzi di buona volontà, studenti liceali o universitari, potesse dar loro una mano nella riuscita scolastica. Fu naturale, a quel punto, scegliere l’insegnamento, e in particolare l’insegnamento di italiano, come mio lavoro per la vita. E nonostante l’idealismo adolescenziale abbia presto lasciato il posto a un senso più pragmatico dell’impegno nel lavoro, credo di non aver mai abbandonato la promessa fatta a me stessa di rivolgermi soprattutto agli ultimi e ai diseredati. Ancora adesso, che sono felicemente pensionata, dedico qualche ora alla settimana a insegnare l’italiano a immigrati africani, che oggi sono gli ultimi degli ultimi.

Se guardo a me stessa durante tutto l’arco della mia vita lavorativa, vedo una persona di buona preparazione, capace di tenersi aggiornata senza troppo assoggettarsi a mode temporanee, ma anche senza restare ancorata a metodi e contenuti obsoleti; dotata di una buona dose di empatia, simpatica e divertente ma anche impaziente, capace di tremende sfuriate. Ho insegnato in modo tutto sommato tradizionale, ho fatto uso della lezione frontale sia perché ho sempre creduto nel valore della parola e nella necessità di spiegare con chiarezza gli argomenti, sia per le difficoltà che gestire l’aula in modo alternativo mi poneva: ho sperimentato in questo senso metodi di lavoro diversi, più laboratoriali, ma dedicando a essi solo una piccola parte delle mie ore di lezione. Ho odiato interrogare, ho fatto grande uso di verifiche scritte, durante le quali mi annoiavo a morte sorvegliando i ragazzi affinché non copiassero, e che poi dovevo correggere con grande dispendio di energie.

La scuola è un mondo a parte, un po’ asilo e un po’ caserma, dove vigono regole incomprensibili a chi ne è fuori. Per esempio, perché dei bambini e dei ragazzi devono essere costretti a stare seduti per molte ore al giorno? Perché il silenzio dev’essere considerato la cosa più importante? «Non voglio sentir volare una mosca!», è il ritornello dell’insegnante tutto d’un pezzo. Avrei voluto essere “autorevole ma non autoritaria”, ma in molte circostanze sono stata autoritaria e non lo considero un punto a mio onore. La scuola è come una catena di montaggio, dove ogni ingranaggio deve stare al suo posto. Se decidi di far lezione in modo mobile e partecipato la tua classe produrrà del rumore, e questo ti discrediterà agli occhi dei colleghi e dei tuoi stessi alunni. Se decidi di non dare voti gli studenti penseranno automaticamente «con questa prof non si fa niente, possiamo rilassarci.» Ho dato voti, ho preteso disciplina, ho bocciato e contribuito a bocciare, ma ho sempre considerato la bocciatura una mia sconfitta e spesso mi sono battuta per “salvare” ragazzi che secondo me meritavano fiducia.

I miei studenti mi hanno voluto bene, e in fondo in fondo non so neanche perché. Non ho avuto il coraggio di andare realmente controcorrente e il mio impegno è stato discreto, ma non straordinario. Non sono stata rigida come certi docenti di cui subivano l’arbitrio e nemmeno materna e indulgente come molte mie colleghe. Cercavo di farli ridere. E ho sempre tenuto fede al mio proposito di schierarmi dalla parte degli ultimi.

Ma affinché mi ricordi che ho fatto parte anch’io della macchina dello sterminio, all’incirca una volta l’anno un mio ex alunno mi scrive. Non come mi scrive qualcun altro, ricordando i bei tempi o elogiandomi per il mio ultimo romanzo: mi scrive per ricordarmi che ho fatto parte di un meccanismo dal quale molti sono stati stritolati.  Sono passati undici anni, mi ricordava pochi giorni fa nel suo ultimo messaggio, da quando decise di abbandonare la scuola. Umiliato, ferito, amareggiato: e lo è ancora, dopo undici anni. Era un ragazzo intelligente e sensibile, e la classe di cui faceva parte aveva nel suo corpo docente alcuni soggetti che ve li raccomando. Queste persone non hanno saputo valorizzarlo in nessun modo, al contrario, hanno annientato la sua autostima, il suo desiderio di apprendimento, la sua vitalità. Non io: mi ero accorta delle sue difficoltà nelle materie tecniche, le uniche che “contassero davvero”, e dell’accanimento che alcuni colleghi avevano nei suoi confronti, e ho preso più volte le sue difese. Italiano gli piaceva, scriveva bene, gli davo buoni voti, lo invogliavo a partecipare a concorsi. Una volta lo accompagnai alla premiazione di un concorso in cui aveva vinto il primo premio. Feci di tutto per evitare che lasciasse la scuola e gli scrissi dopo che se ne era andato. Ma niente di tutto questo conta, per lui. La scuola gli ha veramente fatto del male, e non ci sono figure positive, nella sua esperienza. Io, al massimo, ero “il nazista buono”, come mi disse in uno dei suoi messaggi recriminatori. Buona, sì, ma nazista.  

Informazioni su marisasalabelle

Sono nata a Cagliari il 22 aprile 1955. Vivo a Pistoia. Insegno. Mi piace leggere e scrivere.
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17 risposte a Il nazista buono

  1. Walter Carrettoni ha detto:

    Difficile commentare un articolo del genere. Mi ha colpito. Penso che tu abbia fatto del tuo meglio e ne sei consapevole. Io che la scuola l’ho vissuta solo da studente e onestamente non ne ho un buon ricordo, ho sempre immaginato come avrei potuto essere da insegnante. Forse sarei stato come ti sei descritta.
    Spero che quel ragazzo abbia infine trovato la sua strada.

  2. Credo che tu abbia fatto un lavoro egregio. Tutti abbiamo qualche limite, è normale, ma quello che conta è lo spirito che ci muove, la voglia e l’impegno a fare qualcosa di utile e non perfetto ma fine a se stesso. Ti avrei voluta come insegnante!

  3. Kikkakonekka ha detto:

    Io, nel momento di difficoltà, trovai un prof che mi aiutò a superarle, e gli sarò per sempre grato, ed ogni tanto ci sentiamo (pur senza scadenze fisse).
    Quando, oltre al ruolo prof/studenti, entra in gioco anche il lato umano.

  4. Andrea ha detto:

    E’ difficile commentare l’ultima parte del tuo post (per la prima parte non posso che inchinarmi davanti al tuo impegno), perché ogni caso è a se stante, compreso quello del ragazzo che citi. Se insegnavi in un istituto tecnico o professionale ovvio che il peso delle materie tecniche e professionalizzanti fosse grosso. Compito delle scuole tecniche è anche quello di poter immettere gli studenti nel mondo del lavoro con una preparazione minimamente accettabile. Mi viene a mente il bel film “La scuola” con Silvio Orlando (spero che non ti offenda la cosa), insomma non basta saper fare bene la mosca e sinceramente non credo che tutti possano arrivare a conseguire il diploma delle scuole secondarie superiori. Quale sia la ricetta giusta però non lo so. L’accesso alla scuola secondaria superiore deve essere un diritto per tutte e tutti , ma non credo che sia un diritto il conseguimento del diploma finale. Ma qui il discorso si fa difficile ed insidioso (non voglio arrivare ai miei tempi giovanili quando in prima liceo ero l’unico proveniente da una famiglia proletaria, tutti gli altri dal cosiddetto ceto medio, che allora era medio davvero). L’avanzamento nella scuola secondaria superiore non deve per nessun motivo essere basato sull’estrazione sociale delle/gli studentesse/i. Faccio un esempio: se i programmi scolastici prevedono l’utilizzo di un tablet, deve essere la scuola a garantire che anche gli studenti più poveri ne abbiano uno con relativa connessione internet. Se vien fatta una gita di istruzione, questa deve essere a costo zero per non discriminare. Ma se viene spiegato il Giorgione ed una/un studentessa nel compito scrive ” il Giorgione era famoso perché usava un “pennellone” per stendere il colore giallo” allora è giusto dare l’insufficienza perché semplicemente il soggetto in questione non ha aperto il libro. Qui si apre un altro capitolo: come invogliare le/gli studentesse/i a studiare? Mi fermo perché non insegno a scuola e non voglio rischiare di dire stupidaggini (già bastano quelle dette dei pedagogisti).

  5. marisasalabelle ha detto:

    Sono d’accordo sul fatto che il diploma non va “regalato” e che occorre avere delle competenze per poterlo conseguire. Tuttavia ho conosciuto colleghi che di queste considerazioni di buon senso ne hanno fatto un mantra, diventando estremamente rigidi e di fatto allontanando gli alunni con qualche difficoltà dalle loro materie. Gente che sapeva come umiliare un ragazzo e fargli perdere ogni autostima. Questo secondo me è gravissimo. Pochi ragazzi sono così “stupidi” che per loro non c’è niente da fare… nella maggior parte dei casi vanno incoraggiati, aiutati e apprezzati comunque come persone. Come far amare lo studio… questa è la domanda da un milione di dollari!

  6. newwhitebear ha detto:

    Non è facile commentare un post del genere dove non ti sei autoincensata ma hai messo a nudo le tue manchevolezze che poi sono veniali rispetto al mondo scolastico.

    Sono piuttosto vecchio e la scuola da studente l’ho vissuta in un periodo che il maestro, l’insegnate montava in cattedra e guai a contraddirlo. Ammetto di essere stato uno spirito ribelle e di scontri verbali con chi stava in cattedra ne ho avuto molti. Tuttavia ammetto che ho avuto delle persone che il contradditorio lo accettavano e mi giudicavano per quello che facevo dal punto di vista scolastico. Finita l’università ho tentato l’insegnamento ma ho capito che non faceva per me. Troppo distante da quello che ho sempre pensato della scuola che deve formare e non fermare.

    • marisasalabelle ha detto:

      Sono molti anni che manco dalla scuola e penso che sia molto cambiata. Non sono tra coloro che si mettono le mani nei capelli rimpiangendo i bei tempi andati, credo però che questo sia un momento molto difficile per la scuola, per gli studenti e per i docenti. Le certezze di una volta non ci sono più e mancano certezze nuove.

      • newwhitebear ha detto:

        Ho avuto la fortuna di avere insegnanti preparati e capaci di dialogare ma negli anni cinquanta erano merce molto rara. Se parlo coi miei coetanei molti hanno un pessimo ricordo.
        Quindi nessun rimpianto per la scuola di quei tempi. molto classista e rigida

  7. Ehipenny ha detto:

    Penso che nella scuola siano preziosi insegnanti come te, che non hanno solo l’obiettivo di raccogliere numeri sul registro e arrivare a giugno, ma di arrivarci insieme, e chiunque sia rimasto indietro sarà sempre una sconfitta. La storia del ragazzo mette tanta tristezza, perché a quell’età la scuola è ciò che dovrebbe contribuire a formarti e a regalarti esperienze, che siano belle o brutte, che fuori non si possono trovare. E in fin dei conti, se trovi le persone giuste, sei protetto dal mondo esterno, e impari pian piano ad affrontarlo. Ma sottolineo: se trovi le persone giuste

  8. marisasalabelle ha detto:

    Ho conosciuto molti ragazzi che pur essendo intelligenti e con buone basi, quindi non in serie difficoltà oggettive, non sono riusciti ad adattarsi a tutto ciò che il sistema scuola comporta, ed è un peccato, perché comunque la scuola può dare tanto, e chi la lascia prima del tempo o non riesce a far tesoro di quello che gli viene offerto perde davvero tanto.

  9. mocaiana ha detto:

    Marisa sei stata una splendida insegnante, e il fatto che ti si scriva ancora dopo 11 anni lo dimostra. Per questo ragazzo sei l’unica con la quale parlare. Ed è tantissimo,anche per lui. Il problema della scuola è che agli scrutini non decidono solo gli insegnanti bravi e capaci…

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