Girottolando tra i blog letterari capita spesso di leggere testimonianze di scrittrici e scrittori che parlano del momento e del modo in cui hanno avvertito la loro vocazione.
«Fin da bambina ho amato le storie che mi raccontava la mamma (o che mi leggeva il babbo) la sera, quando mi metteva a letto. Molto presto ho cominciato a inventarne di mie e così ho capito che avrei voluto fare la scrittrice/lo scrittore.»
«La certezza che avrei fatto lo scrittore/la scrittrice mi accompagna da quando ho memoria.»
«Era il primo giorno della prima elementare. La maestra ci disse, bambini, prendete i vostri quaderni. Aprii il quaderno, impugnai la matita e un sacro furore mi avvolse: compresi immediatamente qual era la mia vocazione!»
«A quattro anni, giocando con le letterine calamitate che mi erano state regalate per il mio compleanno, composi la mia prima parola di senso compiuto: Arturo, il nome di mio padre. Fu in quel momento che capii a cosa mi chiamava il destino.»
«Ho pochi ricordi della mia prima infanzia, ma uno si staglia indelebile: ero nella mia culla di vimini, un fagottino di pochi mesi, e ascoltando un’audiocassetta di fiabe popolari ebbi una straordinaria intuizione: un giorno sarei stato uno scrittore. Da quel momento non ho avuto più dubbi.»
Questi racconti di vocazioni fulminanti e precoci mi lasciano sempre un po’ perplessa. Mi chiedo: per diventare scrittori è necessario essere invasi dal sacro fuoco? Tutti coloro che lo avvertono in sé sono destinati a scrivere cose egregie? E se capitasse che un autore, o un’autrice dei più esaltati producesse opere orrende?
A me, invece, piacerebbe leggere qualcosa del tipo: ho sempre amato leggere, mi piace scrivere e credo di avere qualcosa da raccontare. Nel corso della mia vita ho provato più volte a scrivere racconti e romanzi: alcune volte ho portato a termine i miei progetti, altre volte li ho lasciati morire. Chissà se c’è qualcosa di buono in quello che ho fatto!
Marisa Salabelle
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Da bambino, attratto irresistibilmente dalle lucine colorate e intermittenti dello sgangherato albero di Natale che allestivamo con un po’ di bambagia a simulare la neve, mi accovacciavo sotto il tavolino che reggeva l’alberello e cercavo di raggiungere il trasformatore che mio padre – allievo Radio Elettra – aveva costruito e che serviva appunto all’alimentazione delle lucine: quello strano oggetto aveva una forma davvero curiosa. Dopo qualche tentativo le mia dita, allora minute, intercettavano i forellini del cambiatensione e, guidate dall’angioletto dei bimbi verso i punti a tensione più bassa, ricevevano una lieve scossa che mi faceva tremare un po’ per la paura e un po’ per la sorpresa. Sorpresa che cercavo di replicare riaccovacciandomi e ricercando il trasformatore. Fu allora che ebbi il preciso svelamento della mia vocazione e la precoce indicazione del mio destino: quello dell’elettrotecnico.
Hai capito perfettamente quello che volevo dire…
Eh! Vedi che, ogni tanto, capita pure a me di riuscire a comprendere!
Qualcuno ha detto il contrario?