Ho fallito

Martedì, sesta ora. Stanotte ho dormito male, soffro di un’insonnia che non sempre riesco ad arginare con una pasticca. Mi sono trascinata a scuola, già stanca prima di cominciare. Ho interrogato tutta la mattina: sono vicini gli scrutini del primo quadrimestre, alcuni ragazzi sono stati assenti alle verifiche, altri devono rimediare un brutto voto. Alla sesta ora sono in quinta, dove devo completare un argomento prima dell’ultima verifica.
«Ragazzi, so che siete stanchi, anch’io sono stanca, ma ho un argomento che devo finire di spiegare, perciò vi prego di stare attenti.»
«Prof, ma non si spiega alla sesta ora! Siamo fusi!»
«Due ore di elettronica!»
«Tre ore di laboratorio di informatica!»
«Non ce la facciamo!»
Vi capisco, ragazzi, ma non ho alternative: devo finire Pirandello, la prossima settimana c’è il compito, poi gli scrutini, non posso perdere quest’ora.»
«Occhei, prof.»
Comincio. Ricapitolo i punti già trattati, racconto un aneddoto, affronto la questione che mi sta a cuore chiarire stamattina. Sento un brusio: là in fondo qualcuno chiacchiera.
Smetto di parlare. Smettono di chiacchierare. Ricomincio a spiegare, ricominciano a chiacchierare. Mi interrompo di nuovo, ottengo silenzio, riprendo, ma questa volta faccio fatica a riallacciare il filo del discorso. Sospiro, metto il pilota automatico, snocciolo la mia lezioncina e intanto laggiù il bisbiglio è ricominciato.
«Ma allora! Come ve lo devo dire! Come ve lo devo far capire! Sto spiegando! Lo faccio per voi, non per me! Sapete cosa me ne frega, a me, di Pirandello! Basta! Basta! È inutile: non son più buona a far questo lavoro! Devo andare in pensione! Ho fallito con voi! Ho fallito!»
Mi guardano.