Il primo editore con cui ho parlato mi ha ricevuto a casa sua, stava in una bella villetta con giardino e mi ha fatto entrare in una specie di studiolo, una stanza con una scrivania, una poltroncina girevole per lui, due sedie per gli ospiti, che in questo caso eravamo io e mio marito. Lui era un giovanottone alto e grosso, coi capelli lunghi piuttosto unti, molto alla mano, anche un tantino becero. Gli ero stata presentata da una sua autrice, una professoressa che si dilettava a scrivere racconti polizieschi.
“Lo pubblichiamo, sì”, mi disse per prima cosa. “Mi fido della persona che l’ha segnalata, e poi ho capito che è una cosa interessante, ambientata sul territorio… Io non l’ho letto, intendiamoci. Io, difficilmente li leggo, i libri. Gli ho dato giusto un’occhiata, una scorsa, sa. Ma ho dei lettori fidati, lo farò leggere a loro”. E poi giù, a rotta di collo, a dirmi che tipo di libri pubblicava, che formato e che grafica usava, che autori conosceva, che rapporti aveva con loro, quali previsioni faceva riguardo alle vendite. “Un libro, vede, si vende se l’autore è conosciuto, non importa che sia bello o brutto. Se l’autore è conosciuto, vende, se no, no”. Mi sottopose immediatamente un suo modello di contratto. Avrei dovuto capirlo allora, ma ero troppo presa: l’idea di pubblicare finalmente il mio romanzo annebbiava le mie facoltà intellettive. “È solo un modulo così, pro forma. C’è scritto che ne stamperò quaranta copie, ma ne stamperò quattrocento, per prima cosa ne stamperò quattrocento, poi si vedrà, se vende, se vende facciamo delle ristampe. C’è scritto che mi impegno a pubblicarlo entro il 31 luglio, ma lo pubblicheremo prima, sa, un libro bisogna farlo uscire in primavera, o dopo le vacanze estive: un libro, se esce in piena estate, è condannato, chi se ne accorge, chi lo compra? Invece, lo facciamo uscire, vediamo, a maggio le va bene? Così, poi, organizziamo una presentazione, o anche due o tre, prima delle ferie, che ne dice”. Che ne dicevo, ero senza parole, erano i primi di aprile e lui parlava di pubblicare a maggio, “guardi, gli dia una rilettura, mi mandi il file entro il prossimo fine settimana, io poi lo propongo ai miei lettori, lo faccio correggere, io i libri che pubblico li faccio correggere sempre ai miei lettori di fiducia”. Non ero nata ieri, sapevo qualcosa dell’editing, ma questo “lo faccio correggere” non mi andava tanto giù. “Non credo che il mio romanzo abbia bisogno di essere corretto”, dissi, “anzi, visto che capita a proposito vorrei dirle qualcosa sullo stile. Ho fatto delle scelte, ho usato un registro colloquiale, il discorso indiretto libero, qualche espressione dialettale… anzi, pensavo di allegare un piccolo glossario, se le va… poi, sa, ci sono dei personaggi che si esprimono in modo un po’ particolare, sono degli immigrati, ho cercato di rendere il loro italiano rudimentale… Sono caratteristiche linguistiche alle quali tengo molto, danno spessore all’opera”. “Lei mi mandi il file, poi ci penso io, lo faccio correggere”. Ingoiai il mio orgoglio: lui il libro non l’ha manco letto, pensai, dice così, tanto per darsi un tono, ma si accorgerà che non c’è nessun bisogno di correggere alcunché, e firmai il contratto.